Quello che assomiglia a un viaggio intergalattico in realtà è il primo passo coraggioso di Greta Cominelli, giovane cantautrice bresciana, che ha deciso di inseguire un sogno. Il suo primo disco, Tra Marte e Venere, è uscito da pochi giorni su tutte le piattaforme digitali e noi abbiamo deciso di incontrare Greta per parlare di questa nuova e incredibile avventura.
Il disco è un progetto in apparenza breve, composto da sole 5 tracce, ma nasconde tematiche profonde e significative, che spaziano dall’emancipazione ai pregiudizi, dalla musica latina a quella black, pur mantenendo sempre un’anima pop. Ci troviamo di fronte a un lavoro di squadra impegnativo che Greta ha scelto di affrontare con Renato Caruso, chitarrista e compositore, e Paolo Diotti che ha curato l’intera produzione del disco. Ogni brano racchiude un piccolo e differente pezzetto dell’anima di Greta e, allo stesso tempo, gli arrangiamenti e la produzione ci portano in un mondo ricco di immagini e suoni strettamente connessi tra di loro: cambiano i generi, passiamo dall’italiano all’inglese, ma Greta rimane sempre fedele a sé stessa.
Oggi siamo passati al PDT Studio per incontrare la cantautrice e farle alcune domande sul suo nuovo progetto e sulla scelta coraggiosa di auto-produrre un album in questo particolare periodo storico.
Ciao Greta! Come stai? Come ti senti ad avere finalmente in mano il risultato di mesi di lavoro?
È bello, bellissimo.
Dopo tanto tempo ho raggiunto un grande obiettivo che per me ha rappresentato anche un’occasione per migliorarmi, per scoprire cose diverse e nuove sulla musica e sul mio atteggiamento nei suoi confronti. Da ragazzina vivevo molto male il non raggiungimento di un’obiettivo, invece ora ho capito che il percorso è lungo e non sempre gli obiettivi mancati rappresentano una sconfitta. Tra Marte e Venere è stata la dimostrazione di tutto ciò.
Nel tuo percorso di autoproduzione, come hai gestito la responsabilità di dover decidere in piena autonomia ogni aspetto del disco e quali sono state le scelte più difficili?
Ogni nuova responsabilità in realtà non mi impaurisce, anzi è sempre una sfida da affrontare. Per fortuna ho avuto anche un grande supporto nelle decisioni. Paolo, Renato e tutte le persone con cui ho lavorato mi hanno aiutata moltissimo. La condivisione per me è fondamentale: sicuramente avere più visuali aiuta ma anche la possibilità di avere maggiore indipendenza mi ha dato una forte carica.
L’ostacolo più difficile è stato dover consegnare il mio lavoro nelle mani di altre persone. É un vero e proprio atto di fiducia e, con il senno di poi, devo dire di aver fatto la scelta giusta.
A proposito di collaboratori, come hai scelto o trovato le persone giuste con cui lavorare?
Come tutti probabilmente tendo a voler proteggere le mie emozioni, le mie storie… e quindi le persone che avrebbero ricevuto, attraverso la mia musica, una parte di me molto intima le ho scelte con cura. Anzi ci siamo scelti, perchè l’empatia e l’energia sono tangibili da subito ma accettare di lavorare a un progetto come questo è un atto di fiducia estrema e responsabilità anche da parte di chi accetta la collaborazione.
Con Renato e Paolo è scattata come una scintilla che poi abbiamo coltivato un po’ alla volta cercando di mescolare i nostri linguaggi. Tante volte ci siamo punzecchiati ma anche questo serve a raggiungere il giusto livello di confidenza.
Da come ne parli sembra essersi rivelata una scelta vincente. Qual è stato però il percorso che ti ha dato il coraggio di intraprendere questa via?
Ho fatto un po’ tutto il percorso in realtà. Sono partita dalle scuole di canto, concorsi canori e ho tentato la strada dei talent, oltre che lavorare per tanto tempo nella musica live. Dopo tutte queste esperienze pensavo ormai di aver appeso il microfono al chiodo perchè non riuscivo a trovare i giusti collaboratori ma poi qualcosa è cambiato e la strada dell’autoproduzione mi ha dato una speranza diversa da quella che mi aspettavo.
E cosa diresti a chi oggi desidera fare musica? Che strada consiglieresti?
Dipende sempre dai propri obiettivi e da quali contesti si prediligono. Certamente la scelta del pubblico a cui ci si vuole rivolgere è fondamentale ma non sempre deve avvenire a priori: nel mio caso non mi sono fatta limitare da nessun paletto e ho cercato di seguire il mio gusto artistico, non preoccupandomi troppo del panorama musicale a cui volessi rivolgermi. Volevo fare buona musica, raccontare alcune esperienze personali e condividere il più possibile le emozioni. Ho cercato di fare del mio meglio perchè le persone potessero riconoscersi nel mio lavoro.
Grazie alla risposta del pubblico poi si capisce se la strada è quella giusta.
Parliamo ora dell’album. Tra Marte e Venere è il tuo primo progetto discografico in cui ti sei occupata anche della stesura dei testi. Cosa racconti nei tuoi brani e come ti approcci alla scrittura?
Venivo da un mondo dove la scrittura non esisteva. Non avevo coscienza di poterlo fare finché Renato non mi ha spinta a provare e riprovare. La chiave di sblocco è stata la totale assenza di giudizio da parte sua e devo dire che alla fine avesse ragione.
Durante le scuole superiori la mia passione per la scrittura è stata massacrata da un’insegnate e da li ho iniziato a non riconoscermi più in ciò che scrivevo e pian piano ad abbandonare l’abitudine di farlo. Iniziando poi a pensare ai testi sulle melodie di Renato ho tratto ispirazione da elementi completamente lontani tra di loro: un vestito con un taglio particolare, un colore che rimanda a un determinato periodo storico-sociale, frame di pellicole cinematografiche ma anche quadri e momenti di vita vissuti in prima persona. Da li ho associato immagini e parole. É stato un grande lavoro a livello personale che l’evocatività della musica ha incredibilmente facilitato.
Tra Marte e Venere racconta il rapporto con noi stessi e con gli altri, l’emancipazione femminile, la lotta ai pregiudizi e, soprattutto, la bellezza nel senso più profondo del termine.
Nell’album oltre ad aver toccato tematiche piuttosto impegnative, hai affrontato stili musicali e linguaggi diversi passando dall’italiano all’inglese. Come mai questa scelta di variare?
Il nostro primo riferimento è stata l’idea di una mostra di un pittore dove ogni quadro è differente ma la mano che dipinge è sempre la stessa. All’inizio ero preoccupata per questo aspetto – un po’ anche perchè non l’avevo previsto – ma poi mi sono focalizzata principalmente sull’elemento emozionale. Ho seguito l’istinto e ci siamo ritrovati con brani appartenenti a stili completamente diversi tra loro. Non avrei però mai voluto risultassero sconnessi e quindi la vera difficoltà è stata di Paolo che ha dovuto trovare un legame sonoro e musicale capace di creare un unico grande filo rosso che li unisse.
Non abbiamo seguito nessuna moda, nessun suggerimento e quindi ho potuto raccontare diversi aspetti della mia esperienza musicale e linguistica. É un disco che segue un filo artistico, non una produzione commerciale. Rischioso e in salita ma ho voluto accettare questa sfida.
Per raccontare dal tuo punto di vista i 5 brani di Tra Marte e Venere, riusciresti ad associare un’immagine o un elemento a ogni traccia contenuta nel disco?
Dolce caleidoscopi è sicuramente la cioccolata. Non so perchè ma per come è stato trattato il suono mi riporta alla morbidezza, dolcezza, a toni caldi e luci soffuse.
Lucciola scarica: il mare, la malinconia; il grigiore di quel cielo quasi lilla.
Trasparente, invece, è un’immagine cinematografica in bianco e nero riconducibile agli anni quaranta.
Red Lipstick: ovviamente un rossetto rosso fuoco e i locali di Harlem, il mood di quell’ambiente.
Sirena in un secchio di vernice infine mi fa venire in mente un pavone che si muove come se stesse danzando: pieno di colori e con un’apertura a ventaglio che mi riporta un po’ al flamenco.
Prima di salutarci un’ultima domanda. Perché in un periodo in cui la musica è quasi esclusivamente digitale (o in vinile) hai deciso di realizzare un disco anche fisico?
Perché io sono un po’ old school.
Mi piace molto toccare con mano le cose, come i libri. Mi sembrava importante dare alle persone un vero e proprio biglietto da visita fisico e questa è una scelta che si differenzia dal mondo contemporaneo in cui tutto tende al digitale. Mi piaceva l’idea con cui sono cresciuta di poter scartare il disco, soffermarsi sui dettagli del blooket, testi, crediti, ringraziamenti e tutto quello che serve sapere. Da piccola ricordo le cassette minuscole su cui rischiavo di cavarmi gli occhi per leggere il nome dell’autore o lo studio di registrazione che poi ho ritrovato negli anni seguenti in alcuni documentari su YouTube. Mi chiedevo sempre da dove nascessero questi collegamenti tra luoghi e persone nascosti nella penombra dei brani e ho voluto riprendere questo aspetto nel mio disco.