Un caffè con… Giulia Accatino – Creative Director

Giulia è Creative Director in Filmmaster, nata nel mondo degli eventi ha scelto di rimanerci e costruire qui la sua carriera. Da più di dieci anni si muove tra cerimonie internazionali per UEFA, Conmebol, Eurolega e tanti eventi corporate e format residenti, passando da una riunione a Milano a uno stadio dall’altra parte del mondo. Ogni progetto – che sia per fan sugli spalti o impiegati in giacca e cravatta – ha aggiunto uno strumento e un ricordo al suo bagaglio di esperienze.

Buona lettura e buon caffè del martedì!


Consegna il 3 gennaio. 
Vi ho fatto paura eh?

1 – Con un papà che lavora negli eventi da sempre, hai respirato questo mondo fin da piccola, anche se inizialmente cercavi una strada diversa. Quanto ti ha influenzato la sua esperienza, e quanto è stata importante Filmmaster per te lungo il percorso?

Alle elementari ero terrorizzata dalla classica domanda: “Che lavoro fanno i tuoi genitori?”. 
Per molto tempo non mi è stato chiaro cosa facesse mio padre, e nemmeno ai suoi genitori o agli amici fuori dal giro era chiaro. Mia madre mi disse di rispondere “è un libero professionista”, una definizione che è così tutto e niente da risultare comunque rassicurante quando hai 8 anni. Era intorno al 1998, e il mondo degli eventi in Italia stava prendendo forma. È stato con le Cerimonie delle Olimpiadi di Torino 2006 che tutto è diventato più chiaro. Un’esperienza che ci ha fatto vivere un anno con un papà lontano, ma che mi ha regalato uno dei ricordi più vividi e intensi della mia vita. La notte delle prove generali della cerimonia olimpica, nello stadio vuoto, nevicava, e una giovane Elisa, in un leggerissimo vestito di cristalli, cantava “Luce”. Assistevo a tutto in piedi, sotto al palco, tra i pochi presenti. Un’immagine per me indelebile. Tra i ricordi di quelle gite a Torino c’è anche una festa di carnevale e un famoso coreografo nudo, con un campanaccio a coprire gli slip e degli adesivi sul corpo che ricordavano le chiazze di una mucca. Avevo 15 anni e ho pensato: “Cazzo, questi sì che si divertono!”.

È un mondo strano, che mi ha affascinato, ma che inizialmente ho anche allontanato, più per orgoglio che per volontà. Mentre studiavo relazioni internazionali, iniziai a muovere i primi passi. La mia prima esperienza, quella che mi ha fatto scattare la scintilla, mi fa sorridere ancora perché si trattava di un progetto di quelli che, quando arrivano in agenzia, tutti si nascondono pur di non prenderlo. In tre parole: fiera, stand, agosto. Una settimana a Rimini, chiusa in un padiglione. Colpo di fulmine. La cosa che mi piacque di più fu quel senso di gruppo che si crea durante un evento: un ecosistema perfetto che si forma per quel tempo definito e svanisce allo smontaggio. Chiesi di poter rimanere un’altra settimana. Increduli, accettarono.

Sono partita dalla produzione, pensando che fosse il mio, ma non lo era. Così ho iniziato a sperimentarmi come creativa. Dopo un anno di affiancamento in Filmmaster, ho capito, e mi è stato detto, che era lì che dovevo stare. Paradossalmente, i progetti che hanno visto me e mio padre allo stesso tavolo si contano sulle dita di una mano. Se mio padre è stato la miccia, devo tantissimo della mia crescita come professionista a Daniele Lo Faro e Adriano Martella, direttori creativi di Filmmaster, che con una generosità da maestri mi hanno insegnato, supportato e lanciato fino a dove sono ora. Da parte mia, credo di essere stata un buon braccio destro, da tutti loro ho imparato come questo sia un lavoro serio e credo di essere risultata una persona di cui potersi fidare. 

In questi 10 anni in Filmmaster sono diventata Creative Director dopo un percorso di cambi di ruolo “canonico” in agenzia, lavorando su progetti completamente diversi tra loro, dalle cerimonie agli eventi corporate e ai format resident come il “la Città bambini e dei ragazzi” a Genova. La varietà dei brief che arrivano è l’aspetto più interessante e stimolante di lavorare in Filmmaster. Si può passare in rapida successione dal produrre un evento PR a Milano al dover fare le valigie per l’Ecuador per una cerimonia sportiva, a volte con pochissimo preavviso. Avventure completamente diverse, accomunate però dalla stessa formula: lanciare un messaggio, attivare un’emozione, generare un ricordo. Tornare.

Ogni tanto mi domando cosa sarei stata se non fossi nata in questo “circo”, ma porsi delle domande è inevitabile. Il fatto che anche mio fratello si muova con entusiasmo in questo campo (è nella concorrenza, in AlphaOmega) mi rassicura e mi fa pensare a quanto sia importante essere influenzati da personalità positive che amano ciò che fanno. Un abbraccio a mamma, che ci sopporta.


2 – Come descriveresti il lavoro di un creativo e quali qualità credi siano fondamentali per distinguersi in questo ruolo? 

L’approccio “Ruba come un artista” (rif. libro di Austin Kleon) credo sia una grande verità. 
Nulla è più davvero originale. Nel nostro lavoro, questo significa andare alla ricerca di ispirazione ovunque.  Per me, ogni progetto è scavare nel groviglio dei miei riferimenti (da Will & Grace all’ultima Biennale) e scegliere la direzione su cui costruire l’idea, il concept o format. Il risultato finale è la combinazione di elementi già esistenti e di dettagli creati appositamente, cercando sempre di inserire almeno un elemento che sia memorabile per quel pubblico.

Fondamentale è quello che chiediamo adesso di fare a Chat gpt o Midjourney. Strumenti che stra-uso, ma come un meccanico utilizzerebbe una chiave inglese. Sono consapevole che le loro risorse e ispirazioni sono quelle di una collettività molto vasta; senza una direzione precisa nella ricerca, i risultati rischiano di risultare piatti e poco distintivi.

Credo nell’importanza della visione d’insieme, di non fermarsi alla sola “bella idea”. La vera sfida è trovare un’idea che funzioni. Concretizzarla senza snaturarla, unendo astrazione a fattibilità (sono amica dei project manager). Il brainstorming è un bellissimo momento in cui fondamentalmente i creativi si mettono d’accordo per condividere idee che molto probabilmente non si useranno. Tirare le somme alla fine di quella fase è uno dei momenti più difficili ma necessari: Chi butti giù dalla torre?  Bisogna essere credibili agli occhi di un cliente, il Direttore Creativo è insieme al Project Manager il front man del progetto, e il 70% del lavoro è trovare soluzioni a problemi. Il resto è rassicurare e sperare nell’extra budget.

Infine, penso che una qualità preziosa sia quella di essere generosi, avere piacere a condividere un tavolo creativo con altri talenti e creare uno spazio aperto. Apprezzo molto chi, in questo ruolo, riesce a mettere da parte l’ego per lavorare in modo collaborativo.


3 – Quest’estate hai vissuto l’esperienza unica di lavorare allo show halftime della CONMEBOL Copa America 2024, negli Stati Uniti. Quali emozioni, sfide e soddisfazioni hai portato a casa da questo progetto?

È stata una delle esperienze più elettrizzanti e terrorizanti della mia carriera, con due cerimonie di apertura e chiusura ad Atlanta prima e Miami poi, realizzate in tempi strettissimi: il progetto ci è stato affidato a fine aprile per eventi a giugno e luglio. La cerimonia di chiusura sarebbe stata il primo halftime show nella storia del calcio, con Shakira come talent e un’impostazione simile al Super Bowl. Oltre alle tempistiche sfidanti, il timore iniziale era quello di produrre dell’intrattenimento nella terra dell’intrattenimento. In questo caso, il nostro valore aggiunto era l’esperienza specifica nelle cerimonie calcistiche: come palcoscenico un prato vero, molto più delicato di quello del football americano, e tempi di in e out ridottissimi rispetto al Super Bowl (e solo una notte di prove).

La scelta di trasferirci a giugno negli Stati Uniti a inizio giugno e rimanere fino alla chiusura è stata necessaria e vincente. Ci ha permesso di gestire due produzioni in contemporanea con la stessa squadra. L’aspetto più sfidante di tutto il progetto. È stato complesso capire anche come investire al meglio il budget – di molto inferiore rispetto a quello del Super Bowl – e adattarsi a un mercato, quello americano, con costi molto diversi da quelli europei. 

Lavorare con un talent non era la prima volta per me, ma in questo caso era diverso l’approccio. Il talent non era ospite della nostra cerimonia, il talent era la cerimonia.  Ho apprezzato molto che il team di Shakira, al di là dei dettagli sui quali avevano la prima e l’ultima parola, fosse aperto e ci abbia permesso di costruire lo show che ritenevamo più adatto al contesto. Ad esempio, hanno accolto la nostra proposta di utilizzare contenuti di AR per ampliare la scena e trasformare lo stadio brano dopo brano.

Sette minuti e tredici secondi: questo è stato il tempo dello show di chiusura. La velocità con cui spesso si consumano i progetti per cui lavoro è ancora una delle cose a cui devo fare l’abitudine. Sette minuti in cui si condensano centinaia di e-mail, call, riunioni, pensieri, gioie e dolori. E quando finiscono, ti lasciano un po’ così, come quando dormi e all’improvviso senti di cadere nel vuoto. Ti svegli e ti domandi se sia successo davvero.


4 – Ripensando alla Giulia che eri all’inizio del tuo percorso, quali consigli ti senti di dare ai ragazzi che si affacciano oggi al settore? Cosa suggeriresti per affrontare le incertezze e trovare la propria strada?

Non avere fretta di doversi subito definire in un ruolo, pressione che sento molto nelle classi dei master in cui insegno (età media 22 anni). Sia in creatività che in produzione è un lavoro dove, ciò che si è, è il risultato di esperienze di vita, anche diversissime tra di loro. È un lavoro che si impara più sul campo che in un’aula, ma ritengo corretto investire in istruzione, anche studiando qualcosa che pensi di non applicare mai (…arriverà poi quel brief). Ecco, credo che questo sia un ambito che nel tempo ti permette di cambiare pelle più volte, per capire chi sei e cosa ti piace poi fare. Al netto di una solidità e affidabilità che bisogna costruire nel tempo. Come la propria cifra, quella cosa per cui sei proprio tu quello giusto per quel progetto. 

A chi aspira a diventare direttore o direttrice creativa voglio esorcizzare la paura del foglio bianco che mi ha perseguitato per anni, ancora prima di iniziare effettivamente a lavorare. La paura di non trovare immediatamente e sempre l’idea brillante o quantomeno vincente. Con il tempo ho capito che come tanti altri lavori anche il nostro da creativi è fatto di metodo e maestria. Di protocolli mentali e procedure che permettono sempre di arrivare fino in fondo. 

Serve avere l’immaginazione di un visionario e la pazienza di un monaco quando arriva l’email “trovi i miei feedback scritti in rosso”. E ricordarsi che non si è soli, ma in squadra.


5 – Se avessi un super potere quale sarebbe e come lo utilizzeresti sul tuo lavoro?

Vorrei essere una mosca. Una piccola mosca posata su quei cornettini mezzi sbriciolati al centro del tavolo della sala riunioni, per restare lì e sentire cosa succede davvero dopo che noi dell’agenzia ce ne andiamo e il cliente rimane solo, con il nostro pdf. Noi ci alziamo, o scolleghiamo, spesso soddisfatti… ci crediamo tantissimo. Si chiudono le porte, e arriva il momento della verità. Dall’altra parte qualcuno che guarda le slide commentando: “Carino… ma non ho capito… dove sono gli accessi ai bagni?”

Amo vincere ma non sono una fan della competizione, quantomeno non ad ogni progetto. Non è sempre detto che vinca la miglior proposta. Anzi, a volte la vera gara è capire quale sarà il criterio di valutazione. Con il mio super potere, mi poserei qua e là, alla fine di ogni riunione, giusto per svelare il mistero dietro le scelte. Ma forse, alla fine, è meglio che resti un segreto.


Credits 
Intervistatore: Sara Fuoco
Instagram: @sarafuoco
LinkedIn: Sara Fuoco

Intervistato: Giulia Accatino
Linkedin: Giulia Accatino
Instagram: @g_htno


Illustrazione di: Carlotta Egidi
Instagram: @carlottaegidi89