È in corso al Maxxi di Roma, e lo sarà fino ad ottobre inoltrato, la mostra “Tokyo Revisited” di Daido Moriyama e Shomei Tomatsu, due dei principali esponenti della fotografia contemporanea giapponese.
Tokyo è una delle città cosmopolite più affascinanti del mondo, offre un’infinità e una ricchezza di fonti di ispirazione per la creazione artistica e la fotografia. Una su tutte è la street photography, che rappresenta la sua espressione più originale attraverso questi due artisti da sempre impegnati nell’esplorazione delle situazioni della società giapponese del dopoguerra e della sua evoluzione contemporanea.
Occorre, prima di illustrare il contesto artistico dell’esposizione, ripercorrere brevemente la storia di due tra i più noti artisti nipponici.
Alla fine degli anni ’50 Tomatsu si comincia a far notare nel mondo della fotografia del suo paese e negli anni ’60 insieme a Eikoh Hosoe e Kikuji Kawada infrange le regole della classica fotografia documentaria per prediligere una visione più personale, alla cui base c’era la convinzione che il fotografo è in grado di riportare solo un suo frammento di realtà e non l’intera realtà. Tre sono le opere più significative di quel periodo, e sono tutte caratterizzate dall’interesse per tematiche di carattere più universale: “Nippon” di Shomei Tomatsu che ci parla del Giappone del secondo dopoguerra e la sua progressiva occidentalizzazione, “The Map” di Kikuji Kawada il cui tema è la colpa in senso lato (quella del Giappone che aveva provocato il conflitto e quella degli americani che avevano utilizzato la bomba atomica) narrata attraverso una mappatura dei segni lasciati dalla bomba atomica sulle pareti del Dome di Hiroshima e infine “Man and Woman” di Eikoh Hosoe, incentrato non tanto sulla relazione quanto sull’energia, in senso molto generale, propria dei due sessi.
Moriyama decide quindi di trasferirsi a Tokyo intorno agli anni ’60 ed entra in contatto con Tomatsu che ha sempre considerato come suo maestro. Insieme intraprendono un percorso che promuove l’invenzione di nuovi linguaggi fotografici, a volte estremi, interagendo con movimenti sperimentali nel campo dell’arte, della letteratura e del teatro. I due artisti, pur muovendosi autonomamente, si distinguono per le loro diverse aree di interesse. Tomatsu si rivolge al sociale e alla politica (movimenti di protesta studenteschi, conseguenze del conflitto, occidentalizzazione del Paese); Moriyama si dedica di più alla mondanità, al piacere della società consumistica, con una visione critica e polemica (la massima espressione di questa ricerca è sicuramente il movimento “Provoke” di cui Moriyama ha fatto parte insieme ad autori ugualmente noti.
E’ interessante notare che quello che caratterizza sempre più la fotografia giapponese del periodo è l’importanza del libro fotografico che è imprescindibile dalla produzione dell’autore e anzi diventa anch’esso “oggetto” d’arte, per la cura e il design che lo contraddistinguono. Questo prodotto influenzerà in maniera decisiva anche la produzione di artisti e fotografi occidentali, fino ad arrivare a proprie creazioni fotografiche che sfoceranno nella moda, nell’architettura e nell’ arte (chi non ha mai sfogliato raccolte fotografiche simili a vere e proprie opere d’arte?).
Moriyama, in effetti, ha sempre mostrato più interesse a produrre i libri con le sue fotografiche piuttosto che esporre in gallerie e oltre all’incredibile numero di pubblicazioni già realizzate, è sempre stato impegnato, sin dal 1972 nella produzione di una collana dal nome “Record” che incarna in pieno la sua ricerca ossessiva sulla città e in particolare sul distretto di Shinjuku a Tokyo.
Torniamo dunque alla Mostra del MAXXI.
Per Moriyama la realtà ha infiniti livelli di lettura e manda continui stimoli visivi a cui lui risponde in maniera diversa a seconda delle situazioni, della maturità, e dello stato d’animo. Si tratta solo di “vagabondare” nelle stesse aree dove si reca da più di cinquanta anni ed è per questo che sia Tomatsu che Moriyama si identificano nella figura del cane randagio. Essere un fotografo rappresenta per entrambi uno “status”, quello di un senza tetto, guidato da ciò che appare davanti e sotto gli occhi. Immergersi casualmente nella realtà circostante, attraversare la folla ed essere sensibile a qualunque tipo di stimolo: luci, segnali, dettagli, l’amore segreto, anche la violenza.
“Ho scoperto che quando non c’è una casa a cui far ritorno, la strada tende a diventare piuttosto casuale, con un andamento a zig zag e lo sguardo è sfuocato. Quando camminavo, mi sono sorpreso a guardare moltissimo verso il basso e a fissare la terra come fanno gli occhi di un cane randagio. Solo quando ho adottato lo sguardo di un cane randagio quelle cose che di solito vedevo, ma di cui non mi accorgevo veramente, quei piccoli dettagli, improvvisamente sembravano molto familiari.”
In fondo, “Tokyo Revisited” non segue una struttura narrativa ben definita, e questa può essere una spiegazione. Tokyo è l’unica costante presente. Sono i temi dei due fotografi a guidare i visitatori: Il vagare come stile di vita; la città come luogo di performance; l’intimità e l’eros; l’autoritratto, l’editoria e la scoperta del colore e del digitale nelle loro visioni.
I visitatori sono invitati a “rivisitare” Tokyo fisicamente, connettendola con la realtà romana: una città in bilico tra l’eterna negoziazione con le sue rovine storiche, e proiezioni futuristiche per il domani.
Credits: Massimo Mastrolillo.